mercoledì 28 settembre 2011

Ho sviluppato uno strano interesse per Tintin. Sarà perché ho metà dei libri a casa e non li ho mai guardati, sarà perché quest'estate mi è capitato tra le mani Tintin nel paese dei Soviet e mi è sembrato una lettura divertente; sarà perché è un classico e in questo periodo ho una predisposizione verso i fumetti del primo dopoguerra (Tezuka su tutti). Sarà..

Ho sempre faticato a leggere i fumetti di Hergé, troppo scritti, troppo dettagliati, c'era qualcosa che mi impediva di entrarci. Forse una certa struttura a gag, a strisce, che pesa in particolare nei primi libri. O forse era il formato ad albo, così bello e scomodo.

C'era anche il fatto che mia madre disprezzava Tintin di un odio feroce e senza scampo: non so quanto dovuto a letture marxiste - quelle per cui Paperone era un colonialista sfruttatore e tutta Paperopoli un inganno capitalista - o quanto a un'idiosincrasia. Per lei Tintin era un mostro, un essere amorfo che non cresceva, non aveva genitori, né relazioni se non con il proprio cane - e una relazione abbastanza autistica.

Tutto vero: ma non coglieva lo spirito spiritoso e d'avventura che innerva il fumetto. E' tutto un gioco, i personaggi sono chiazze buffe, la morte metaforizzata e assente, senza sangue; è tutto un continuo viaggiare, un inseguimento combinatorio - con tutti i mezzi a disposizione, su tutte le strade possibili - e spesso poi ci si perde nell'incanto dei luoghi e degli oggetti, così precisi e nitidi, così definiti.


Ma la cosa che mi colpisce di più sono le virgole del movimento che appaiono ai piedi dei personaggi quando corrono. E' un segno minimo, che non ho visto ripetuto da alcun altro fumettista, ed è un ghirigoro strano per indicare la corsa, a metà strada tra la nuvola di polvere e il balzello. Ce n'è di tutti i tipi, lunghezza, arricciamento...

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