Ci mancava la pioggia, le cavallette, ci mancava la nube tossica che da porto Marghera ci stringe ancora più in casa (chiudi le tapparelle, sbarra gli scuri, la biancheria portala dentro, dice mia madre al telefono), ci mancava questa luce tenue, autunnale, che promette tempeste e non estate, il grigio del cielo, ci mancavano le zanzare, l’umidità, le occhiaie, l’ordine, il disordine, gli odori della casa, ci mancava il sonno, il lavoro che sfinisce, i bambini nel lettone, i compiti per casa, gli esami della scuola, la maturità, e in più è finito il Sandeman: maggio è il mese della morte: il tempo si schiaccia di colpo, come alla fine di un tubetto di dentifricio, quando si arrotola la coda per far uscire un residuo azzurro.
Lavoriamo fino a tardi, i nostri occhi hanno la consistenza delle toffolette. Verso le due mi rendo conto che sono stanco (non è vero, sono stanco da molto prima: ma alle due sono uberstanco). A letto, Giovanna consulta il bollettino notturno al cellulare. Un giorno mi dice che le cose sono migliorate, il giorno dopo mi dice che sono peggiorate. «Buone notizie, no?» una notte; «Non ne usciremo più» l'altra.
«Non ricordo se ho pisciato la bambina», dico io.
«Ma secondo te, le mascherine, dobbiamo lavarle? Cosa dobbiamo fare?», risponde lei.
Insomma, le solite cose.
Dopo aver dato la caccia alle zanzare, leggo per due minuti. Giovanna ha abbandonato il cellulare, si è già mezza addormentata. Ci baciamo. Mi si chiudono gli occhi, mi manca la presa sul libro. Spengo la luce.
E lei «Puoi spegnere la luce?»
«L’ho appena spenta», rispondo.
«E allora ’sto bagliore, che…», dice, aprendo gli occhi, «Ah…».
«Ah?»
«È la tua pelle», mi fa.
«…»
«Balugina».
«…»
«…»
«…»
«Dici che passo troppo tempo al computer?».
«Non so, ma l’azzurro ti dona».
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